Lo stupro del Ruanda, il genocidio di un popolo, sono trascorsi vent’anni. Ad un anno dal colpo di stato e dall’autoproclamazione a presidente di Michel Djotodia, la Repubblica Centrafricana continua ad essere un paese senza pace. E su Bangui, la capitale, soffia un’ombra di terrore.
Marco Napoli, fotoreporter di guerra, è corrispondente in Africa per il quotidiano L’Indro e collaboratore del Caffè Geopolitico. Nel 2014, assieme al fotoreporter Ugo Lucio Borga, copre il conflitto bellico che affligge la Repubblica Centrafricana. Ad oggi racconta il mondo che lo circonda, non quello dei riflettori, ma quello spesso dimenticato e la cui verità giunge frammentata nelle case di tutti.
Marco Napoli racconta Bangui dal di dentro, non si limita a trascrivere fotograficamente quanto accade. Si sofferma, lungo le strade, si reca nei luoghi del dolore dove la povertà è solo una delle miserie umane.
Quartieri abbandonati dai musulmani e poi saccheggiati, l’addestramento dei soldati-bambini nelle milizie Anti-balaka, le donne che piangono la morte dei loro figli e dei figli di un paese intero, la tomba al campo profughi di M-poko.
Cosa porta con sé Marco Napoli? Cosa c’è nello zaino di un fotoreporter di guerra che è al contempo un essere umano sensibile? Gli scenari si susseguono e divengono immagini che paiono come appunti di una realtà terribile che non risparmia nessuno.
Non ci sono vincitori e neppure vinti in questa guerra come in ogni altra. Resiste la morte e l’ombra di questa anche quando le acque si placano.E il paese diviene l’ombra di se stesso, i civili le vittime dei saccheggi e della povertà.
Le milizie antibalakà che controllano la zona vestono indumenti musulmani. Ballano lungo le strade agitando i machete in segno di vittoria, scimmiottano preghiere islamiche.
“Uccisi o fuggiti” sono i civili di Bangui raccontati da Marco Napoli, come il musulmano ferito ritratto in uno dei suoi scatti.
Vi si legge tutta la sofferenza ed una “pallottola” sparata che lascia un buco nel cuore di un paese.
Lei è stato fotoreporter in occasione del conflitto bellico della Repubblica del Centro Africa nel 2014. Ci racconti la Sua esperienza.
E’ stata un’esperienza piena, molto particolare, non soltanto per la questione che il paese era in guerra,ma anche perché era la mia prima esperienza, un novello all’avventura che inseguiva le orme del suo collega-insegnate. I primi giorni l’attenzione era focalizzata su di lui, su come si muoveva e sui suoi consigli. Inoltre il mio compito principale era fare dei video e quindi cercavo di ritagliarmi il tempo per fare anche le foto. In quelle settimane la mia testa lavorava e elaborava come un automa, probabilmente questo era dovuto anche al tasso di adrenalina molto elevato. Noi non siamo abituati a questa cosa, è difficile da spiegare. Non credo che il reportage di guerra sia un vero e proprio genere, o una tecnica, credo sia piuttosto una condizione esistenziale e mentale e l’adrenalina sia una componente inscindibile, una condizione esistenziale come di un soldato ma disarmato, L’unica arma che possiede non “tira” ma “prende”. Inoltre la mia paura maggiore era di non portare a casa del materiale decente, il non riuscire a raccontare quello che vedevo e vivevo e deludere la persona che aveva investito su di me per quel lavoro. Alla sera quando tutto questo scendeva era impossibile non riflettere su quello che avevo visto e vissuto e il confronto a quello che noi viviamo tutti i giorni era quasi un obbligo ma il mettermi tutte le sere sui libri di fotografia per migliorarmi e per evitare errori il giorno successivo serviva anche a staccare la mente. Diciamo che ho realizzato quello che ho fatto e visto quando sono tornato a casa.
Fin dove si può raccontare veramente? Dove può arrivare la fotografia in contesti di dolore come quelli che Lei ritrae?
I fotogiornalisti che oggi immortalano i conflitti continuano a correre come sempre nel fuoco per strappare un’immagine che nessuno possiede. Ora però si devono confrontare con l’ipocrisia della società civile che dopo aver ammirato o spesso un’immagine non solo li accusa di spettacolarizzazione ma troppo spesso la loro coscienza si chiude e non si indignano di quello che sta succedendo a volte anche in nome loro. Secondo me non ci sono confini, la fotografia non specula sulla morte o sul dolore, ma lo racconta, lo descrive e lo porta laddove la notizia potrebbe non arrivare. Ricordiamoci ad esempio che negli anni 60 l’opinione pubblica americana (e non solo) si scandalizzo per gli orrori che il proprio paese che stava creando grazie alla divulgazione delle foto del conflitto. La coscienza disgustata dell’America cercava nelle fotografie del Vietnam le ragioni per alzare la voce contro la guerra. Ora invece troppo spesso si tace, la coscienza si gira da un’altra parte. L’orrore esiste e lo crea l’essere umano, tocca all’essere umano raccontarlo sperando che sia l’ultima volta.
Guardi dentro la Sua borsa di fotoreporter di guerra. Cosa vede?
Uno zaino pieno di difficoltà e le maggiori non sono quando uno è sul campo,. Oggi ci sono meno soldi a disposizione e meno attenzione delle persone. Una volta si partiva e si restava per settimane fuori; adesso il lavoro è più frenetico, veloce. Si rincorrono le notizie e si trasmettono le immagini quasi in tempo reale. Devo dire che lo zaino è pieno di consapevolezza di quello che faccio e spero che sia un veicolo utile per smuovere le persone.
Contatto FB: Marco Napoli
Per PHOLIO: Ilaria Sciadi Adel
Non ci sono vincitori e neppure vinti in questa guerra come in ogni altra.