“Non è un paese per vecchi” era il titolo di un celebre film e questo, il luogo raccontato da Massimo Pelagagge, non è un “paese per matti”. Perché il manicomio non è un luogo, non lo è mai stato ed in seguito alla sua chiusura è divenuto piuttosto un non-luogo, e mai come ora un spazio di passaggio.
Potrebbe piuttosto definirsi “paesaggio” questo insieme di stanze e pareti, e a ben guardare pare di scorgere il fotografo che guarda in lontananza da un punto all’altro dello spazio, cercandone affannosamente l’orizzonte.
Massimo Pelagagge predilige quella che si usa definire “landscape’s photography”, che inizia ad abbracciare sin dalla giovanissima età da autodidatta con la stampa in camera oscura.
Usa il b/n per narrare quella che a tutti gli effetti appare come una storia, o meglio un amalgama di storie, delle quali sembra di ascoltare le voci e le parole. Parole scritte sui muri, campeggiano lungo tutto lo spazio, esprimono pensieri.
Sono i sentimenti dei writers, lì lasciati come monito per ricordare che quello sarebbe dovuto essere un luogo, un bel posto ricco di umanità differenti e attraenti.
Solitudine, rabbia, depressione. I writers hanno dato voce ai sentimenti di coloro che non ci sono più, e così questo è divenuto un posto per riflettere, un monumento alla dignità che non dev’essere mai violentata.
Massimo Pelagagge è un fotografo sensibile ed al contempo misurato, capace di restituire con “distaccata vicinanza” la realtà raccontata. Si legge in questi scatti un interesse ed una predisposizione per la fotografia d’architettura, in quanto gli spazi sono raccontati nella loro fisicità a 360°. Inquadrature d’ampio respiro, che svelano spazi altri, scenari che sono come quinte di un teatro. Vi si notano con chiarezza le strutture, le linee e le forme e, con raffinata maestria, lo spazio si sposa alle parole che divengono anch’esse parte integrante del tutto.
“Questo doveva essere proprio un bel posto, immerso nel verde e pieno di gente sobria, un po’ come noi, solo che magari la pensavano e la vedevano in maniera leggermente diversa da noi. I loro pensieri tra simili e noi là fuori a pensare a loro e loro qui dentro a pensare a noi là fuori, immaginando un mondo diverso che non c’è.”
1-Rabbia, solitudine, pazzia. Quale il suo aggettivo per descrivere il luogo da Lei ritratto?
Solitudine è l’aggettivo che meglio descrive le sensazioni trasmesse da questo “non luogo”.
Traspare dai muri dalle stanze dagli oggetti rimasti, una sensazione di solitudine fisica e soprattutto mentale, di persone racchiuse in proprio mondo interiore.
2- Considera la mente un luogo? E se potesse fotografarci dentro, cosa ritrarrebbe?
Rispondo con una citazione:
La mente è un luogo a sé, e ha la capacità di trasformare il paradiso in inferno e l’inferno in paradiso.
John Milton. La fotografia ritrarrebbe i pensieri, le emozioni, lo stato d’animo e non l’aspetto esteriore.
3- Scatti una fotografia nella sua mente. Cosa vede?
Vedo un luogo in trasformazione ed evoluzione, alla ricerca di nuovi interessi. La fotografia mi aiuta in questo percorso e permette di fissarlo nel tempo.
Contatto FB: Massimo Pelagagge
Per PHOLIO: Ilaria Sciadi Adel
Perché il manicomio non è un luogo, non lo è mai stato ed in seguito alla sua chiusura è divenuto piuttosto un non-luogo, e mai come ora un spazio di passaggio.